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Sulla responsabilità del datore di lavoro per infortunio di un estraneo
Sulla responsabilità del datore di lavoro per infortunio di un estraneo
Il datore di lavoro può rispondere per un infortunio che dovesse accadere nei luoghi di lavoro della propria azienda anche a una persona estranea se lo stesso è legato a una violazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Di G.Porreca
Corte di Cassazione Penale Sezione IV – Sentenza n. 42647 del 17 ottobre 2013 – Ric. omissis.
Commento a cura di G. Porreca.
E’ un insegnamento quello che discende da questa sentenza della Corte di Cassazione che può essere utile per quelle organizzazioni di lavoro che consentono di frequentare gli ambienti destinati all’attività lavorativa a persone estranee all’organizzazione stessa. Il datore di lavoro di un’azienda, sostiene la suprema Corte, può rispondere anche per un infortunio che dovesse accadere nel luogo di lavoro ad una persona estranea alla organizzazione. Perché si configuri un profilo di colpa, ha precisato la stessa Corte, non occorre che vi sia la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ma è sufficiente che l’evento dannoso si sia verificato a causa dell’omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti ai fini della più efficace tutela dell’integrità fisica del lavoratore.
Il fatto
La Corte d’Appello ha confermata la sentenza pronunciata dal Tribunale che aveva affermato la penale responsabilità del legale rappresentante di una società amministratrice di uno stabile, sede di alcuni uffici del Comune, in ordine al reato di cui all’art. 590 comma 3, in relazione all’art. 8 comma 9 del D.P.R. n. 547 del 1955. Al legale rappresentante era stato contestato il suddetto reato poiché per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e violazione della normativa di prevenzione degli infortuni sul lavoro per non aver segnalato e comunque disposto la segnalazione della presenza sul pianerottolo del primo piano, nelle immediate dell’ascensore, di un dislivello del pavimento di circa 8 cm costituente ingombro con p ericolo di caduta di persone, aveva cagionato ad una dipendente del Comune lesioni personali gravi. In particolare era successo che la dipendente del Comune si era recata, unitamente ad una collega, nell’immobile di cui era amministratrice l’imputata per portare dei fascicoli in un ufficio ivi ubicato. La stessa aveva preso insieme alla collega l’ascensore e, uscendo, era caduta in quanto non si era accorta che, immediatamente dopo la porta dell’ascensore, c’era un gradino che non era segnalato e dello stesso colore grigio del pavimento. A seguito della predetta caduta la dipendente aveva riportato la frattura articolare scomposta dell’epifisi distale del radio dx con prognosi iniziale di trenta giorni, poi elevati a sessanta.
Il ricorso alla Cassazione e le decisioni della suprema Corte
Avverso la decisione della Corte di Appello il legale rappresentante della società amministratrice dello stabile ha proposto ricorso a mezzo del proprio difensore deducendo fra l’altro la erronea applicazione della legge penale con riguardo alla condotta colposa prevista e punita dalla norma incriminatrice e la mancata rimproverabilità della stessa a lei imputata. La stessa ha posto in evidenza che, essendo priva di adeguate competenze tecniche, si era rivolta ad un professionista che aveva omesso di segnalare il dislivello quale fonte di pericolo, non imponendo, conseguentemente, alcuna prescrizione.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso facendo presente sul punto che entrambe le sentenze di merito avevano sottolineato come circa un anno prima dell’episodio la stessa dipendente aveva segnalato all’imputata l’esistenza e la pericolosità dell’avvallamento per cui la stessa era pienamente a conoscenza della possibile insidia e le incombeva pertanto, in considerazione della posizione rivestita, il dovere di attivarsi (come poi successivamente avvenuto dopo il verificarsi dell’episodio) per eliminarla o comunque per segnalare opportunamente il dislivello agli utenti dell’ascensore.
In merito alla osservazione avanzata dall’imputata secondo cui erroneamente sarebbe stata contestata la violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro nonostante l’infortunata non fosse una sua dipendente ma del Comune presso i cui uffici si stava recando per ragioni di servizio, la suprema Corte ha ricordato che “in caso di lesioni o di omicidio colposo, perché possa ravvisarsi l’ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l’evento dannoso un legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli artt. 40 e 41 c.p.”. In tale evenienza si ravvisa l’aggravante di cui all’art. 590 c.p., comma 3 “anche nel caso di soggetto passivo estraneo all’attività ed all’ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell’infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l’evento e la condotta inosservante”.
“Non occorre che vi sia la violazione di specifiche norme dettate per la prevenzione degli infortuni sul lavoro” ha quindi precisato la Sez. IV, “essendo sufficiente che l’evento dannoso si sia verificato a causa dell’omessa adozione di quelle misure ed accorgimenti imposti ai fini della più efficace tutela dell’integrità fisica del lavoratore” ed ha quindi concluso che non ha nessuna importanza che l’imputata non era il datore di lavoro della infortunata giacché “il principio cautelare ha una valenza generale ed inderogabile, tale da imporsi nell’interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell’impresa”.
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